INTRODUZIONE
Per fare bene il vescovo
sono efficacissime le quattordici opere di misericordia corporali e
spirituali». Il segreto del patriarca Roncalli, e gran parte della forza
spontanea con cui conquistò il cuore dei veneziani, sta nel compimento
quotidiano delle quattordici opere di misericordia. Sarà il suo stesso
segretario, Loris Capovilla, a definirlo più tardi come «il Papa
delle opere di misericordia».
Venezia, negli ultimi anni del suo
soggiorno, offriva sempre più spesso a Roncalli occasione di esercitare
la pietà; cioè di travasarsi con pienezza e immediatezza in tutti
coloro che lo avvicinavano, ma soprattutto nei sofferenti. Quella che il
paganesimo ha visto come una debolezza - la pietà - il cristianesimo l'ha
riscoperta e rivelata come la più dinamica delle virtù, in quanto,
esercitata, mette in moto tutta la forza della coscienza e dell'intelligenza,
compendiando in se stessa tanto la carità che la giustizia. Chi ha
pietà è forte, non debole; accetta il dolore degli altri,
più che il loro male; e rammenta il proprio male, per non atteggiarsi
orgogliosamente a superiore e restare distante dagli uomini. Bernanos ha scritto
che la pietà è «la più violenta delle passioni»
È una passione, la più violenta di tutte, e, dove divampa, una vita vi
si consuma sino in fondo.
Come dei malati, così si occupava dei
lavoratori d'ogni categoria, con predilezione per quelli più disagiati e
lontani dalla Chiesa. Le grandi arterie industriali di Marghera e di Mestre
ponevano, proprio sulla soglia della Venezia immobile ed immortale, problemi
urgenti e sempre diversi. Le visite di Roncalli erano frequenti, cordiali,
sempre aperte a ciò che il momento maggiormente esigeva. Chi ricorda
quelle visite, e i suoi discorsi, non ha mai trovato in essi una sola traccia di
retorica, di demagogia devota e clericale. Il figlio dei contadini di Sotto il
Monte, anche diventato principe della Chiesa, non dimenticava che le parole,
moltiplicate e magari protese a coprire qualche vuoto d'impegno e di coerenza,
sono più negative d'ogni altra cosa, e non toccano il cuore di chi le
ascolta se non vibrano di semplicità e di autentica
partecipazione.
Con i piedi nell'acqua, condannata ad una agonia lenta e
sublime, Venezia aveva le braccia frenetiche; e si andava aprendo a una convulsa
attività industriale ed operaia, proprio per riscattare
l'immobilità inevitabile del suo centro storico. Se quello poteva vivere,
in un certo senso, del turismo internazionale, la popolazione di terraferma
sempre in sviluppo, non poteva restare ad attendere le
briciole.
L'interesse e la partecipazione con cui Roncalli prese a cuore il
problema degli operai e dei lavoratori sono uno sviluppo ulteriore della sua
lunga esperienza precedente; un momento che lo preparerà, anche come
contatti diretti, a trovare il linguaggio più universale e immediato per
rivolgere al mondo del lavoro la grande enciclica Mater et Magistra, sviluppando
le idee fondamentali della Rerum Novarum di Leone XIII. La vita di Roncalli,
vissuta sempre alla "periferia" della Chiesa, si è continuamente
arricchita di realismo cristiano: i poveri di Sotto il Monte, quelli della
Bulgaria; i lavoratori, i pescatori, i terremotati della Bulgaria, le vittime
della guerra in Grecia, il mondo operaio lontano dalla Chiesa nella cattolica
Francia: tutto è stato per lui "documento" diretto ed efficace per
comprovare il suo impegno di amico dei poveri e dei lavoratori. Leone Algisi
scrive a questo proposito. «Lo preoccupava il benessere sociale dei
lavoratori. Si rivolse con molta franchezza, anche con pubbliche lettere, ai
datori di lavoro, quando gli parve di poter loro richiedere qualche sforzo
maggiore di carità e di giustizia verso i bisogni degli operai. Anche
qui, per il suo tatto, non varcò mai i limiti della discrezione. Non si
atteggio a conoscitore di problemi tecnici, non suggerì soluzioni
specifiche; lasciando di trovare queste ai competenti, stimolò con
insistenza le buone volontà, intercedendo come padre per i
figli».
Uomo di cultura con gli uomini di cultura, i poveri, i
semplici, i lavoratori seppero presto di poter contare su di lui come sull'amico
più fidato e sincero. Ci tenne sempre, soprattutto, ad aiutare coloro che
erano suoi figli e dei quali doveva rispondere davanti a Dio, ma che non avevano
con lui alcun legame di sangue e di parentela.
I legami di certo clero con
le famiglie e le parentele, una situazione causata dall'abbondanza del clero
stesso a Venezia, gli ripugnavano profondamente. Egli preferiva fare "prossimo",
con la carità, proprio coloro che naturalmente potevano apparirgli
estranei.
UN GESTO DI FIDUCIA
Fu questo spirito di solidarietà con i
poveri e i lavoratori, questo rispetto degli altri che lo condusse, nel 1957, a
parlare del congresso dei socialisti italiani ai suoi «figli di
Venezia». Abbiamo già accennato alle interpretazioni che furono date
di quel gesto, ma vale la pena di tornare a meditare con maggior calma sulle
parole che Roncalli scelse, con profonda intuizione, per prendere e dare atto di
un fenomeno che aveva già un'importanza particolare, anche per la vita
politica e religiosa italiana, soprattutto di oggi.
«Del fatto che ve
ne dico una parola rispettosa e serena - scrisse il patriarca sul giornale
diocesano - da buon veneziano anch'io, che ha l'ospitalità in grande
onore, come del resto si addice al precetto paolino per cui il vescovo deve
apparire hospitalis et benignus, voi comprenderete come io apprezzi l'importanza
eccezionale dell'avvenimento, che appare come di grande rilievo per l'immediato
indirizzo del nostro Paese. Esso è certamente ispirato, lo voglio ben
credere, allo sforzo di riuscire ad un sistema di mutua comprensione di
ciò che più vale nel senso di migliorare le condizioni di vita e
di prosperità sociale. È sempre di qualche pena, talora di pena assai
viva, per un pastore d'anime, il dover constatare il fatto che molte
intelligenze oneste ed elevate rimangono insensibili e mute come innanzi ai
cieli spenti, ignorando o facendo segno di dimenticare i principi basilari di
quel messaggio divino che, pur fra debolezze di uomini e di tempi, furono il
palpito di venti secoli di storia, di scienza e di arte, a tutto onore delle
nazioni europee: e che si pensa di poter raggiungere la costruzione dell'ordine
economico, civile e sociale moderno sopra altra ideologia che non si ispiri al
Vangelo di Cristo. Ma, detto questo, a schiettezza di posizioni spirituali, come
fra cortesi alme si suole, resta l'augurio nel cuore perché i figli di
Venezia, accoglienti e amabili, come è loro costume, contribuiscano a
rendere proficuo il convenire di tanti fratelli di tutte le regioni d'Italia,
per una comune elevazione verso gli ideali di verità, di bene, di
giustizia e di pace».
L'èco di quello scritto fu enorme, sia in
chi l'approvò che in chi ci vide poco meno che un cedimento ideologico e
di metodo. Si era ancora in anni difficili, e il dialogo non era una
realtà accettata e convalidata dalla Chiesa. Il centro sinistra stava per
nascere, ma non era ancora nato, e la collaborazione fra cattolici e socialisti
era guardata da molti come la fine della chiarezza e della coerenza cattolica.
Anche con un gesto tanto semplice e umano, Roncalli fu profeta; e se gli
costò amarezze profonde e critiche da parte di molti del clero e della
gerarchia, lo consolò certo di aver auspicato il rispetto e il dialogo
per tutti gli italiani di buona volontà.
TROPPO BUONO?
Intanto la vita interiore di Roncalli si andava
sempre più serenamente misurando sulla morte che egli riteneva vicina. Le
note del diario a questo proposito sono di una tranquillità evangelica.
Aver visto scomparire le sorelle, aver perduto amici e parenti carissimi,
significava per lui l'impegno di una più consapevole e serena
preparazione alla fine. Nel 1955, durante il ritiro di Torreglia, scrive:
«Anni settantaquattro di vita. Gli stessi di San Lorenzo Giustiniani, primo
patriarca di Venezia, quando morì (8 gennaio 1456). Sto preparando la
celebrazione cinque volte centenaria di quel beato transito. Non sarebbe anche
la buona preparazione alla morte mia? Pensiero grave e salutare per me... La
vita che mi resta non vuol essere che una lieta preparazione alla morte. Questa
accetto e attendo con fiducia, non in me stesso, perché sono povero e
peccatore ma per la infinita misericordia del Signore... Il pensiero della morte
mi tiene dolorosa e pur buona compagnia dal giorno della mia nomina a cardinale
e patriarca di Venezia. In diciassette mesi ho perduto tre care mie sorelle; due
specialmente care, perché vissute solo per il Signore e per me; per oltre
trent'anni custodi della mia casa, in tranquilla attesa di congiungersi negli
ultimi anni col loro fratello vescovo. Il distacco mi è costato assai, al
cuore più che al sentimento. Amo - pur non cessando di pregare per loro -
vederle in cielo a pregare per me, ormai più liete di aiutarmi e di
attendermi di là, che di qua. O Ancilla, o Maria, associate ormai nella
superna luce gioiosa alle due, Teresa ed Enrica, tutte e quattro tanto buone e
timorate di Dio, sempre vi ricordo, vi piango e insieme vi
benedico».
Il suo esame di coscienza era ininterrotto. E non poteva
non presentarglisi, prima o poi, anche il dubbio d'essere eccessivamente
longanime e comprensivo con tutti. Ci teneva a far sì che nemmeno la
pietà e la comprensione dovessero rendere meno efficace il suo ministero,
e aggravare la sua responsabilità per le anime che gli erano
affidate.
Mai la morte lo visitò così spesso come negli anni
di Venezia. Si direbbe che proprio sulla soglia del pontificato, gli sia stato
fatto il vuoto intorno, per dargli più che mai il senso e lo slancio
necessari per appartenere tutto e soltanto a Dio e alla grande famiglia degli
uomini. Nel giugno del 1957, sempre nel ritiro di Torreglia, scrive: «Il
pensiero della morte non mi dà turbamento. Anche uno dei cinque fratelli
miei è partito ed era il penultimo, il mio caro Giovanni. Che buona vita
e che bella morte! La mia salute è eccellente e robusta ancora; ma non
debbo fidarmene, voglio tenermi in prontezza di adsum a qualunque, anche
improvvisa, chiamata. La senescenza - che è pure grande dono del Signore
- deve essere per me motivo di silenziosa gioia interiore e di quotidiano
abbandono nel Signore stesso, a cui mi tengo rivolto, come un bambino verso le
braccia aperte del padre. La mia umile e ormai lunga vita si è sviluppata
come un gomitolo, sotto il segno della semplicità e della purezza. Non mi
costa il riconoscere e il ripetere che io sono e non valgo che un bel
niente».
Esternamente, restava un uomo festoso e cordiale, attento a
tutte le sfumature della carità, pronto a mettere a proprio agio l'ospite
e l'interlocutore. Si dedicava anche alle cose belle e gustose che avevano il
potere di ricreare il suo spirito e d'arricchire la sua cultura. Permise che
fosse aperta a Stravinski la Basilica Marciana perché vi eseguisse il suo
«Oratorio sacro in onore di San Marco». Fu lui che volle tessere
pubblicamente l'elogio funebre di Lorenzo Perosi quando morì nel 1956, e
volle fosse commemorato solennemente, nel 1957, il IV centenario della morte di
Giovanni Gabrieli.
Dal 23 al 26 marzo 1958 fu a Lourdes, su invito del
vescovo monsignor Théas, per la consacrazione del tempio sotterraneo di
San Pio X. A Lourdes era sempre andato volentieri. La sua devozione mariana -
appresa nella sua infanzia all'ombra del Santuario delle Caneve - era rimasta la
devozione di un fanciullo candido e innamorato; e via via s'era approfondita con
gli anni senza nulla perdere del suo candore e dei suoi slanci, piuttosto
arricchendosi delle pensose consapevolezze dell'uomo di studio e del pastore di
anime. E quando un francese approdava al patriarchìo, a Venezia, per
Roncalli era festa, festa dell'amicizia.
Daniel Rops ricorda uno di questi
incontri con commozione profonda: «Agosto. Venezia. Ricevimento tutto
intimo, a tre. L'accoglienza è esattamente la stessa che all'avenue
President Wilson, e nondimeno v'è qualcosa di cambiato in mons. Roncalli.
Sono forse le responsabilità pastorali che l'hanno reso più
pensoso? Uno dei primi soggetti toccati e il popolo di Venezia, che ama e dal
quale si sente corrisposto. V'è molta povertà, che non si vede
quando per le calli si passa da turista, ma che preoccupa lui che è il
padre. Incidenti elettorali hanno avuto luogo recentemente coi comunisti; non
nasconde che ha dato una spinta per pacificare gli animi. Ritorna sulla
necessità, per i cattolici, di essere vigilanti sulla questione sociale,
cita Toniolo, il grande leader del cattolicesimo sociale italiano, ed ha questa
uscita: "La disgrazia è che non siamo abbastanza buoni. La regola mia
è che bisogna essere buoni". Un istante di sorriso - di quel ridere di
fanciullo, così fresco, che scoppia all'improvviso, e dura e lo fa
tossire - quando rievoca le sedute solenni dell'Accademia francese, sotto la
Cupola (l'antica: non ha conosciuto la Cupola restaurata), e i terribili scranni
dove, dice, "una metà soltanto di Nunzio poteva assidersi". Poi,
ridiventato grave, (giacché ha conservato l'abitudine d'infilare i
soggetti l'uno sull'altro) parla dell'America Latina, sulla quale sembra abbia
riflettuto, e che lo preoccupa "Bisogna che i vecchi popoli cattolici
comprendano che devono aiutare tutti quei popoli che hanno risorse non ancora
messe in valore e sono sottonutriti - dice - inviando viveri, ordinazioni,
capitali, ma anche sacerdoti, soprattutto, innanzitutto sacerdoti". Leggendo la
Mater et Magistra, io ripenso alla conversazione di
Venezia».
«Prima di lasciar partire i due visitatori, tiene a
mostrare la camera di Pio X, che ha potuto ricostruire esattamente grazie ad un
piccolo quadro che ci mostra, e facendo ricercare in tutto il palazzo i mobili
che erano rappresentati nel dipinto. "Il cardinal Sarto è partito di qui
per essere Papa - dice. - Non se l'aspettava, il poverello! Sapevate che aveva
preso per Roma un biglietto d'andata e ritorno?". - La prossima volta, Eminenza,
prenderete un biglietto d'andata semplice? - "Tacete che Dio mi eviti una simile
sventura!..."»
Nel 1954, quando per un momento era sembrato che Pio
XII dovesse soccombere al grave disturbo che lo affliggeva, anche Roncalli
avrà pur pensato a chi si sarebbe potuto indicare come successore di
Pacelli. La docilità con cui respirava nella volontà di Dio non
può avergli impedito di immaginarsi pure per un solo momento, che quella
sorte sarebbe potuta toccare a lui. «Sventura» sarebbe stata per la
sua umiltà; ma l'obbedienza che era il motto del suo stemma non sarebbe
stata certo rinnegata, tanto più sapendo che si sarebbe trattato di
obbedire alla volontà di Dio.
L'UNICA ASTUZIA
Intanto era riuscito a sedurre il cuore di tutti i
veneziani, dalle autorità ai più umili. Era amico dei gondolieri,
che si sentivano capiti sino in fondo. Della cortesia veneziana, della
capacità nativa di quella gente di stabilire un dialogo immediato, egli
approfittò sempre per restare in contatto con la realtà degli
uomini e delle cose.
Il ragionier Edoardo Sala, a cui indirizzò
lettere di una delicatezza straordinaria, una anche da Papa, ricorda un incontro
con Roncalli a Sotto il Monte appena fu nominato patriarca di Venezia. Sala era
un uomo semplice, con poca dimestichezza con l'etichetta e le regole della vita
di rappresentanza.
«Volli togliermi una vecchia curiosità
ricordava il Sala - e, approfittando della sua cortesia, gli chiesi: "Scusi,
è molto difficile il mestiere del diplomatico?". Rispose - non lo
dimenticherò mai, è diventata la mia norma di vita: - "Niente
è difficile. Basta avere una furberia, una sola: essere semplici e
onesti. La semplicità, l'onestà sconcertano gli altri, quelli che
si credono furbi, e vincono sempre, sulla distanza. Questa regola è
valida specialmente in diplomazia, dove la tattica tradizionale è quella
della sottile menzogna, dell'abilissimo intrigo. Parlare a cuore aperto li mette
nel sacco».
Il prof. Eugenio Bacchion, presidente dell'Azione
Cattolica veneziana, ricorda come Roncalli sapesse trarre anche dalla stessa
storia di Venezia conferme al proprio stile e al proprio spirito nel trattare
con le autorità e con la gente. «Un giorno - racconta Bacchion - sua
Eminenza mi mostrò un documento tratto dal nostro archivio di Stato. Era
un dispaccio del Senato ai Rettori di Bergamo; riguardava l'annunciata visita di
San Carlo Borromeo alla Chiesa bergamasca. Il succo del documento era questo:
"Sant'uomo, quel Borromeo, ma non si sa bene cosa voglia, cosa venga a fare qua.
Comunque, fategli onore". Il patriarca commento: "A parte la gelosia sospettosa
della Signoria verso le persone di Chiesa e la curia, quale garbo, quale tatto,
quanta signorilità. Hanno fatto scuola, quei signori, perché i
medesimi tratti io li trovo anche fra la gente semplice. Le assicuro che se un
gondoliere facesse il diplomatico, darebbe dei punti a certi
professionisti».
Roncalli seppe sempre unire questo profondo amore per
ciò che era tipicamente veneziano e i caratteri di universalità
che sentiva di dover dare al proprio apostolato pastorale. L'aneddottica,
più o meno autentica, che lo vuole umile fra gli umili è legittima
nello spirito, anche se non esatta nella lettera.
Ciò che al
patriarca premette più d'ogni altra cosa, negli anni veneziani, fu
l'arricchimento della base pastorale della città e della diocesi. Per la
prima volta egli disse proprio a Venezia, negli incontri e nelle meditazioni ai
sacerdoti, quella parola che lo avrebbe poi caratterizzato come pontefice della
novità: aggiornamento. Roncalli concepiva la «riforma» della
Chiesa come un «aggiornamento» continuo e graduale; cioè come
un contatto permanente e fiducioso del clero con la realtà delle cose e
con gli avvenimenti della cronaca. Nessuna riforma si poteva fare
all'improvviso, di colpo; ma nessuna cosa andava trascurata se avesse in modo
positivo rinnovato le energie e le intuizioni degli uomini della Chiesa.
Si
servì della visita pastorale, per mettersi meglio a contatto con il
clero, al quale andavano tutte le sue maggiori attenzioni. I suoi predecessori,
cardinal Piazza e mons. Carlo Agostini, erano rimasti sul terreno strettamente
pastorale: avevano percorso molte volte l'intera diocesi, avevano eretto chiese
e parrocchie nuove. Roncalli continuò su quella linea, aggiungendovi la
carica della sua dolce e profonda umanità, in virtù della quale
gli aspetti della sua attività strettamente pastorale acquistavano
immediatamente credito, risonanza e simpatia, guadagnandogli un'immensa
solidarietà, specialmente da parte del clero e del popolo più
poveri.
Fra le altre cose lo preoccupava l'assistenza religiosa nei centri
nuovi, dove mancavano le chiese e i sacerdoti; specialmente verso il litorale,
dove le attività collaterali all'istituzione della Mostra del Cinema
avevano fatto crescere rapidamente una popolazione eterogenea e difficile da
affrontare con i criteri tradizionali. Le chiese nuove si moltiplicarono; la
selezione e la disposizione del clero fu studiata con intuizioni sempre felici,
e non si tardò a vedere i primi frutti di questa metodologia evangelica.
All'inizio del 1957, quando istituì due giornate annuali per raccogliere
fondi a favore dell'erezione di nuove chiese, aveva già firmato i decreti
di erezione di quindici nuove parrocchie, e di tredici «curazie»;
altri trenta casi richiedevano una sistemazione rapida e radicale. Roncalli non
esitava a chiedere, per queste iniziative, l'aiuto di tutti; ma pochi lo hanno
saputo fare come lui, con la sua stessa umiltà, discrezione, finezza di
spirito e di modi.
A preparazione sia della visita che del Sinodo aveva
voluto a Venezia una solenne missione cittadina, predicata da don Giovanni Rossi
e dai suoi collaboratori della Pro Civitate Christiana. La missione fu una delle
più grandi consolazioni di Roncalli, che alla sua conclusione, prima in
San Marco sfavillante di luci e d'oro, poi sulla magica piazza, volle
concluderla con un ringraziamento esplicito al suo popolo. La sua voce, quella
sera, era stanca e fioca; ma tutti vi sentivano palpitare la gioia di un pastore
che ha avuto modo di scoprire il cuore del proprio gregge e non ne è
stato deluso.
La visita aveva voluto cominciarla dal punto stesso in cui il
suo predecessore aveva dovuto interromperla; ed anche questo era stato un gesto
di stima altamente apprezzato da chi stava studiando il carattere e lo stile del
nuovo patriarca.
Nel frattempo non trascurava d'essere solidale con tutte
le iniziative che tendessero a restituire a Venezia, in qualsiasi settore, la
sua grandezza di un tempo. Come il suo predecessore, fece parte del Consiglio
della Fondazione Cini, che tante benemerenze culturali conta fin dal suo
sorgere. Il patriarca sostenne con tutto il suo entusiasmo il rifiorire
dell'antico monastero dell'Isola di San Giorgio, dove la fondazione aveva sede,
restauri che posero il vasto, mirabile complesso di edifici antichi, a pelo
d'acqua, in un gioco di colori cangianti fra cielo e mare, di ospitare le
più moderne iniziative: spettacoli, biblioteche, convegni, tavole
rotonde, congressi, incontri a livello internazionale e opere di
educazione.
Anche i restauri al campanile di San Marco furono una sua
benemerenza. Tutto ciò che riguardava la bellezza di una città
come Venezia, faceva parte, per lui, di un preciso dovere di attività e
di solidarietà. Dove poteva e doveva giungere lui come pastore, giungeva,
a costo di tutti i sacrifici possibili dove non toccava a lui, era il solidale
l'amico, il sostenitore più fedele che fosse possibile trovare.
Con
ciò non è detto che gli mancassero le croci e le tribolazioni, le
ansie e le delusioni. Si è già detto come non riuscisse a vincere
la battaglia per l'iconostasi della cattedrale. Egli partì per il
conclave senza aver ottenuto quello che aveva sperato.
Nel 1957 dovette
affrontare un problema molto più sgradevole. Il turismo ad alto livello,
che gravita su Venezia come su uno dei luoghi più qualificati del mondo,
sembrava esigere, per la maggioranza degli amministratori del Comune di Venezia
il trasferimento in città del Casinò del Lido. I sostenitori erano
addirittura dell'idea di portarlo nel centro storico di Venezia, in Ca'
Giustiniani, a pochi passi da San Marco, nella casa che aveva abitato il primo
patriarca veneziano, San Lorenzo Giustiniani. Ciò che era riuscito al
card. Fontaine - cioè l'arresto momentaneo del progetto - sembrava
davvero non dovesse riuscire a Roncalli. Egli prese posizione in modo netto, ed
anche patetico, come poche altre volte aveva fatto. Sul suo giornale diocesano
scrisse parole come queste: «All'umile Patriarca scrivente si vorrebbe
dunque preparare il calice dell'amarezza, perché se ne abbeveri quasi a
soffocargli nel cuore le grandi consolazioni che il suo ministero di
carità e di pace a Venezia gli procura?». Non ottenne che una sosta
momentanea del progetto, come il suo predecessore. Forse seppe soltanto
più tardi, a Roma, quando già era Papa, che gli amministratori del
Comune avevano ripreso ed attuato il progetto, limitandosi a rispettare il
centro storico e sacro della città, e spostando il casinò nei
dintorni della stazione ferroviaria.
A Venezia, fin dal tempo del patriarca
Sarto, era proibito ai sacerdoti visitare la Biennale d'arte. Molte volte si era
riscontrato in molte opere un senso aperto di profanazione e d'irrisione anche
per i valori religiosi. Roncalli riuscì ad avere in casa sua, nel 1956,
per la prima volta, i commissari delle diverse nazioni partecipanti alla Mostra,
e rivolse loro parole di tanta discrezione, ma anche di tanta chiarezza che
l'effetto sperato, almeno per il momento, venne da sé. Non uscì
dall'ambito della sua ansia pastorale, della sua responsabilità di padre.
Ma chi volle comprendere comprese. Tanto che il divieto di visita per i
sacerdoti poté essere abolito.
Giovanni XXIII con il Cardinale Giuseppe Siri arcivescovo di Genova
POCO IMPORTA CHE IL NUOVO PAPA SIA BERGAMASCO
Roncalli patriarca era maturo per il pontificato.
La sua umanità aveva raggiunto un equilibrio, un candore ed una pienezza
spirituale assoluta. Vale per lui sulla soglia del conclave la definizione che
ne ha dato, anche da un punto di vista psicanalitico, il prof. don Costante
Scarpellini, dell'Università Cattolica di Milano: «Non poteva avere
complessi. I complessi sono sintomi d'insicurezza. Papa Giovanni, al contrario,
era un esempio di perfetto equilibrio e di armonia... Accettava prima di tutto
se stesso, così com'era, e accettando se stesso poteva accettare il suo
prossimo, comprenderlo, amarlo. Amore e umiltà sono due pilastri
fondamentali, per la religione cattolica. Ma lo sono anche per la psicanalisi.
La psicanalisi identifica l'umiltà con il realismo (cioè con la
consapevolezza dei propri limiti, che evita sempre le delusioni) e l'amore con
il transfert: con la capacità di gioire o di soffrire all'unisono con
un'altra persona. Proprio perché era psicologicamente maturo, Papa
Giovanni fuggiva i barocchismi, gli orpelli. E proprio per la sua eccezionale
maturità si sentiva il padre di tutti. Un individuo maturo non rifiuta i
figli e se non ne ha generati cerca dei figli spirituali, si esprime per mezzo
loro. E come un buon padre, un Padre Santo, li valorizza, li esalta, li
preferisce a chiunque. Esistono due forme, due tipi psicologici. Uno vive nella
concretezza, l'altro nell'astratto. Il primo, non avendo paura della
realtà, è spontaneo; il secondo, introverso. L'uomo, per
camminare, si serve di entrambe le gambe. Così è per la Chiesa,
che alterna da secoli un papa mistico e un papa terreno. "Ogni cosa a suo
tempo", diceva Angelo Roncalli. Un'epoca come la nostra, l'època della
bomba atomica, delle conquiste spaziali, aveva bisogno di pietà,
d'indulgenza. Aveva bisogno d'amore. La Provvidenza ci ha inviato Papa
Giovanni».
La Provvidenza lo maturava per questo; ora lo sappiamo. E
tuttavia egli non ha mai fatto calcoli del genere, anche se l'ipotesi, come si
è detto, non può essergli rimasta estranea. Il valore della sua
umiltà sta proprio nell'essere pacificata in se stessa, senza scopi,
senza destinazioni diverse dal desiderio di piacere a Dio e di respirare in lui.
Lo si è capito con chiarezza, a conclave appena aperto, da una sua
lettera inviata al vescovo di Bergamo: «Una parola sul punto del mio
entrare in Conclave. È come una invocazione che faccio per voce del Vescovo, a
tutto ciò che è più caro al cuore mio di buon bergamasco.
Ripensando alle tante immagini venerate e care di Maria sparse in tutta la
diocesi, al ricordo dei nostri santi Patroni, e vescovi, e sacerdoti illustri e
santi, religiosi e religiose di distintissima virtù, l'animo si conforta
nella fiducia della nuova Pentecoste che potrà dare alla S. Chiesa nel
rinnovamento del capo, e nella ricostruzione dell'organismo ecclesiastico, un
nuovo vigore verso la vittoria della verità, del bene e della pace. Poco
importa che il nuovo Papa sia bergamasco o non bergamasco. Le comuni preghiere
debbono ottenere che sia un uomo di governo saggio e mite, che sia un santo e un
santificatore. Eccellenza, Ella mi comprende. Un saluto ed un abbraccio. Per
tutti i Suoi Figlioli ancora una benedizione».
Letta a distanza di
anni, è difficile non giudicare inconsapevolmente profetica una simile
lettera. Vi sono già, chiare e nitide, le linee fondamentali del
pontificato giovanneo. Roncalli non immagina d'essere scelto alla grande
responsabilità, rifiuta l'idea di sé in quel posto come una
"sventura", ma ciò non toglie che egli pensi con realismo ottimista ad un
tipo ideale di pontificato, legato alle necessità dei tempi e alla
riforma della Chiesa, quale amerebbe vedere nel successore di Pio XII.
Il
suo commiato da Venezia somiglia, anche in questo, al commiato di Pio X:
è una partenza che ha la certezza e la volontà del ritorno anche
se implicitamente condizionate all'accettazione della volontà di Dio.
Pare che il patriarca Sarto, sul punto di partire, dicesse di aver acquistato
soltanto il biglietto d'andata. E a chi lo supplicava di tornare, avrebbe
risposto: «O vivo o morto, tornerò». È difficile conoscere che
cosa in realtà abbia detto, in quel momento, Roncalli. Un giorno sapremo
dal biografo più autorevole ed informato - cioè dal suo fedele
segretario - quali furono le sue parole. Ma di una cosa si può comunque
essere certi: che tutto avvenne nel clima della consueta serenità,
così pronta al compimento della volontà di Dio.
Il 5 ottobre
del 1958, il patriarca seppe che il noto clinico Antonio Gasbarrini, appena
giunto a Venezia per un congresso medico alla Fondazione «Ciui», era
stato chiamato subito a Roma. Doveva recarsi al capezzale di Pio XII, già
in gravissime condizioni di salute. Papa Pacelli era a Castelgandolfo, ma
nemmeno l'aria della campagna romana gli aveva saputo arrestare il male. Noti
medici e studiosi non nutrivano alcun ottimismo su quanto lo aspettava. Il 6
ottobre era morto, dopo una lunga e dolorosissima agonia, seguita con
trepidazione dal mondo intero.
Roncalli ne tessé l'elogio funebre in
San Marco, il 5 ottobre, commentando le parole del Vangelo a proposito di
Gesù: Bene omnia fecit. Amava profondamente il Papa che lo aveva chiamato
dall'Oriente in Occidente, che gli aveva reso possibile il grande incontro con
la Francia, che lo aveva voluto cardinale e patriarca di Venezia, che aveva
saputo premiare con un traguardo pastorale la sua lunga fatica di diplomatico.
Restava fuori dalla polemica e dalla mischia che umiliò l'agonia e la
morte di uno dei più grandi Papi dei tempi moderni.
Il 12 ottobre
partiva da Venezia per il Conclave. Il patriarchìo restava deserto; ma
come in attesa del suo ritorno. Le cose al loro posto, le pratiche nei cassetti
l'attesa nel cuore del suo popolo. In lui, semplicemente lo zelo per contribuire
a eleggere l'uomo più adatto alla Chiesa e al mondo.
Le ultime note
nel diario spirituale, sono, ancora una volta, note di umiltà, sentimenti
di pochezza, impegni di maggiore ritiratezza e zelo nella missione di pastore:
«No, così non va. Negli esercizi io debbo essere solitario, lontano
da affari di curia, ed occupato solo, in silenzio e bene, di me stesso e dei
miei interessi spirituali. L'avanzarsi degli anni dovrebbe impormi maggiori
riserve nell'accettare impegni di predicazione extra la mia diocesi. Debbo
scrivere tutto prima, e questo mi costa, oltre alla umiliazione costante che io
sento della mia pochezza. Che il Signore mi aiuti e mi perdoni».
Sono
parole scritte alla fine di settembre del 1958. Un mese dopo Angelo Roncalli,
patriarca di Venezia, era Papa Giovanni XXIII.
Angelo Roncalli ascende al soglio pontificio